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io_viaggio_leggero | 13 dicembre 2025, 07:00

A spasso sul Monte Bianco, la traversata in meno di 24 ore: l'intervista a Jean Paul

In questa rubrica troverete interviste a viaggiatori e racconti di viaggio vissuti in prima persona. Luoghi da scoprire, avventure emozionanti e storie di vita. Se hai un’esperienza da raccontare… scrivi a: ioviaggioleggero@gmail.com

C’è un silenzio particolare che appartiene alla Valle d’Aosta. Un silenzio vivo, fatto di creste che sembrano animali addormentati, di ombre che scorrono rapide sui versanti, di un’aria che cambia umore a ogni ora del giorno. E poi c’è il “Gigante Bianco” .

Jean-Paul, raccontaci di te?

Fin da bambino gli sport della “Valle” sono stati parte della mia quotidianità: sci alpinismo, discesa, fondo. Gli inverni trascorrevano tra gli allenamenti, mentre d’estate, quando la neve lasciava spazio all’erba, sentivo il bisogno di continuare a muovermi. Così ho iniziato a correre sui sentieri, ciò che oggi chiameremmo “Trail”. Con il tempo ho capito che quella era davvero la mia strada. Ho iniziato a gareggiare a 15 anni e ho proseguito fino ai 30. A 19 ho vinto un campionato italiano a squadre. In Valle d’Aosta il rapporto con la montagna nasce presto: le cime diventano presenze familiari, i sentieri un’estensione naturale di casa, e il silenzio una lingua da imparare in fretta. In questo ambiente ho costruito un legame profondo con l’alta quota. Oggi mi occupo anche di soccorso in ambito alpino, un ruolo che richiede preparazione e una conoscenza autentica del territorio.

 

Come nasce l’idea di attraversare il Monte Bianco in meno di 24 ore?

In un bar di paese. Una sfida nata quasi per scherzo, come accade con le imprese più improbabili. Ci siamo chiesti se fosse possibile partire dalla chiesa di Courmayeur e raggiungere quella di Chamonix, affidandoci soltanto alle nostre gambe. Una traversata che normalmente richiede una guida alpina e almeno due giorni. Noi volevamo completarla senza soste, in un’unica tirata: 65 chilometri, 4.000 metri di dislivello positivo e altrettanti in discesa. Era agosto 2020. Con noi avevamo solo ciò che serviva: corda, imbrago, casco, piccozze e ramponi. E una montagna pronta a farci attraversare temperature che andavano dall’estate al gelo.

 

Ci porti con te ?

Certo. Siamo partiti alle sei di sera dalla chiesa di Courmayeur. Verso mezzanotte abbiamo raggiunto il Rifugio Gonella per una breve sosta. Lì ci siamo promessi che al primo segnale di pericolo saremmo tornati indietro: un modo semplice per ricordarci chi comandava davvero, la montagna! .Quando le guide alpine hanno iniziato la loro salita, le abbiamo seguite per qualche tratto, poi le abbiamo oltrepassate. Da quel momento eravamo soli. La notte ci avvolgeva con una densità quasi fisica. Camminavamo con la luce delle torce frontali che disegnava un corridoio stretto davanti a noi. Nel tratto del “Piton des Italiens” il mondo sembrava ridotto a un filo sospeso nel buio.

 

C’è stato un imprevisto?

A 300 metri dalla vetta è accaduto ciò che nessuno prevede. La piccozza di André è scivolata in un canalone ed è sparita. Ci siamo ritrovati con un solo attrezzo. Tornare indietro era rischioso: con il sorgere del sole i crepacci iniziavano ad aprirsi e la discesa avrebbe richiesto ancora più attenzione. Abbiamo deciso di proseguire, passo dopo passo, muovendoci in sincronia, come se la montagna seguisse ogni nostro gesto. È stato un momento duro, quasi sospeso, ma lo abbiamo superato!

 

L’alba sul Monte Bianco?

Siamo arrivati in cima alle 7.30, dopo tredici ore e mezza di salita. Il panorama era irreale: Milano avvolta dalla foschia, il lago di Annecy, quello di Losanna, e in lontananza una linea sottile che sembrava mare. Ci siamo abbracciati stringendo l’unica piccozza rimasta. È un’immagine che porto ancora dentro: il mondo che si allarga, e allo stesso tempo si avvicina.

 

Com’è stata la discesa verso Chamonix?

Dalla vetta alla valle francese la montagna cambia carattere. Diventa meno verticale, ma più mutevole, come se volesse chiederti ancora concentrazione prima di lasciarti andare. Fino al Rifugio Gouter tutto è filato liscio. Lì abbiamo mangiato qualcosa, cercando di tenere a bada la stanchezza. Il tratto più delicato è arrivato subito dopo: un canalone soggetto a caduta massi. Ne abbiamo sentiti alcuni rotolare e abbiamo attraversato la zona senza esitazioni. A Les Houches mancavano ancora quattordici chilometri. Eravamo alla diciannovesima ora e restare sotto le ventiquattro sembrava quasi impossibile. Abbiamo iniziato a correre, spinti da una forza che non saprei spiegare. A tre chilometri dall’arrivo André mi ha detto: «Non sento più le gambe». «Io non le sento da un paio d’ore», gli ho risposto. Siamo arrivati piangendo, accolti dalle nostre famiglie e dagli amici.

 

È un’impresa replicabile?

Non la consiglierei. Eravamo allenati ed esperti, ma una traversata così richiede condizioni particolari e un margine di rischio elevato. Nel 2020, con la situazione Covid e le normative non ancora chiare, abbiamo trovato l’occasione per provarci. La guida alpina Michele Amadio ci ha dato un grande supporto, soprattutto morale e tecnico. Senza forse non saremmo nemmeno partiti, resta comunque un gesto un po’ folle.

 

Cosa resta dopo un’esperienza così?

Una certezza: quando affronti una sfida con lucidità, l’improbabile diventa possibile. E un legame fortissimo con André. Condividere una prova del genere cambia il modo in cui ti rapporti all’altro: oggi ci confrontiamo su tutto. La vetta ha solidificato un’amicizia che non ha più esitazioni. Oggi avrei un nuovo desiderio: il Cervino. Partire dalla chiesa di Cervinia, salire in cima e scendere fino a Zermatt. Era il sogno anche del mio grande amico Victor Vicquery, che non c’è più. Mi piacerebbe farlo anche per lui.

 

Ci sono avventure che non nascono da una programmazione, ma da un’intuizione improvvisa, quasi per gioco. Quella di Jean-Paul Dessandre e del suo amico André Torcotti è una di queste.

Marco Di Masci

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