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Eventi | 10 maggio 2013, 11:25

Giovanni Battista De Andreis parla di Emilio Scanavino, suomaestro, amatissimo in Costa Azzurra

Giovanni Battista De Andreis parla di Emilio Scanavino, suomaestro, amatissimo in Costa Azzurra

1)  Maestro De Andreis, ci sono episodi che vuole raccontarci per capire questo grande artista? Quali sono gli insegnamenti più importanti che le ha lasciato il Maestro?

 

Ho sempre pensato di scrivere una testimonianza in tal senso che, nell’impossibilità per ora di concretare, diventa sempre più preziosa col tempo. L’arte era per Scanavino testimonianza di verità e tensione insopprimibile dell’essere: per cui anzitutto lezione di vita. Emergeva in lui la determinazione dirompente e contagiosa di ogni grande artista di dominare - nella vita come nell’arte - la spaventosa tragedia dell’esistere. Evento da cui non fu certo risparmiato, sfidata fino all’ultimo istante da una opposizione eroica.

Una tepida sera di primavera del 1957, usciti dal Liceo, eravamo sbucati in corso Italia. Scanavino cercava di spiegarmi la tensione spasmodica di certi suoi quadri che lo travagliavano, sull’amplesso. Intravisto il modesto block-notes quadrettato che mi scortava ovunque lo afferrò. Non appena estratto il suo mitico-portamine-giallo a pulsante si è scagliato sul primo foglio. Nel giro di un minuto, sul bordo del marciapiedi di punta Vagno, mi restituisce il block col disegno finito. “Ecco, – dice - una cosa così!” L’energia astratta di due figure perfettamente identificabili nell’atto spasmodico di uno scontro di sessi a bocche spalancate: l’urlo d’una energia stravolgente. Uno schizzo tutt’oggi esistente, per decenni sopravissuto piegato in quattro nel mio portafogli. Senza firma – non l’ho mai sentito reclamare un’autentica.

Seppure in modo discontinuo la nostra frequentazione proseguì per tutta la vita, da dopo gli anni del Liceo fino a quell’estremo addio di Calice, nel 1986. Per due volte il Maestro fu a trovarmi a Imperia, ripetute volte sono stato da lui e Giorgina nella splendida casa-studio di Calice, di cui ricordo momenti commoventi, e svariate altre ci vedemmo a Milano, Galleria del Naviglio, via dei Tulipani, Triennale, e all’epoca in cui la sua dimessa Panhard Dyna fu costretta a cedere il passo alla sfavillante Citroën Déesse Dix-neuf Idée azzurra. “Ma lei non sarà il famoso Scanavino?” Un giovane automobilista con cui si era sfiorato sull’imbocco di Foro Bonaparte. “Certo!”. “Allora mi fa un autografo!”. “Ma mi faccia il piacere!”.

Già al Liceo, era sua ossessione non lasciarsi sfuggir nulla delle complesse-sfuggevoli realtà che ci sfrecciavano attorno. Se gli riferivo di essere stato a un concerto al Carlo Felice, subito: “Stravinskij c’era?” A una mostra al Teatro Falcone - dove era esposta anche una mia opera - scoprii un piccolo suo quadro dal titolo rivelatore “L’uccello di fuoco”. A casa sua mi aveva mostrato due monografie di Sutherland e Bacon - allora pressoché ignoti in Italia - nuove di zecca. Ma il mio occhio aveva anche intravisto, tra i dorsi della discoteca, “Missa solemnis” di Beethoven. Il suo studio di allora era costretto in un’angusta stanza quadrata dove si calpestavano quattro dita di colore, con un cavalletto e un Cristo in croce tracciato sulla parete.

Quella stessa estate dello “schizzo”, o quella seguente, mi fece la sorpresa. Un pomeriggio a Imperia. Un solo Driin!! Dipingevo dei fiori su una credenza. Non appena aperta la porta, eccolo davanti a me: quella sua aria impaziente e sorniona. Come dire “Dove credevi che fossi?” Appena messo piede in casa, dopo un bisticcio su De Staël, da me temerariamente definito “macchiaolo”, parlammo di Wols, Van Gogh, Borromini (come Aiace), e di tutti gli artisti che si erano tolti la vita. O che c’erano andati vicino.

L’irruzione del Maestro a Imperia era anche dovuta all’installazione del suo bassorilievo in bronzo nell’atrio della nuova sede del Genio Civile. Non appena il giorno dopo finimmo di sistemare il tutto: “Devi fotografarmelo” mi chiese, “meglio che puoi. A Milano, in fonderia, ho capito che mi copiano. Così… foto alla mano, si vedrà chi è stato il primo!” I suoi sospetti cadevano sui fratelli Pomodoro. Per me allora perfetti sconosciuti. Tutte quelle sfere perbeniste di Arnaldo disseminate un po’ dappertutto, squarciate da interventi gestuali, mi hanno con gli anni convinto che i timori di Scanavino non erano infondati.

Come altri lavori in quella sede, degli artisti liguri più in vista del momento, anche l’opera di Scanavino doveva la sua esistenza alla legge Bottai del 1942, che così recitava: qualsiasi edificio, eretto da enti e istituti pubblici, è tenuto a destinare in opere d’arte il 2% del preventivo. Una legge fascista, benemerita e tuttora in essere, da sempre scrupolosamente ignorata da tutti gli amministratori e politici di una Italia “democratica”. Requiem aeternam. Con buona pace per l'articolo 9 della Costituzione Italiana.

Un sabato d’estate io e Giò Rossi siamo passati a trovarlo, nel suo studio al due di via Tamburini, prospicente il Parco Sempione. Dopo una trattoria frugale siamo risaliti in studio. Una lunga fatiscente stanza bohémien sui tetti, con una branda dirimpetto all’ingresso e un cavalletto sul fondo, accanto alla finestra. C’era da affrontare la domenica. A Scanavino erano rimaste in tasca mille lire in tutto. Nelle tasche nostre ancora meno. Il Maestro affrontò una tela già abbozzata sul cavalletto, mentre io mi buttavo sulla branda. “Fatti una dormita!” Dopo un paio d’ore, risorto dalle profondità di un sonno indecente, scorgevo Scanavino sul fondo sferrare gli ultimi tocchi al quadro. I grigi misteriosi del suo primo periodo. Dopo mezz’ora ci trovavamo tutti tre in piedi sull’undici, il tram che rasenta la Nord, tocca la Scala e percorre tutta via Manzoni. Il dipinto fresco pendeva ben stretto dalla destra del Maestro. Preoccupato che non sbattesse in qualcuno. La galleria da lui presa di mira era la Montenapoleone, al numero sei sottostrada. Dopo due minuti di contrattazione col gallerista rieccoci in strada. “Trentacinquemilalire!” annunciò il Maestro: “non sono tante… ma la domenica è assicurata!”

Dopo la stessa trattoria del sabato, il primo pomeriggio della domenica ci vide imbarcati tutti e tre alla Nord, sul treno per Como. Destinazione Brunate. L’unico spazio per posti in piedi in fondo a una carrozza di coda era il nostro. Due ragazze accanto stavano come noi aggrappate dove potevano, dato lo sferragliare furioso del convoglio. Sembravano divertite a questo incontro fuori schema. In una familiarità improvvisata e svagata ci siamo arrampicati in loro compagnia sulla funicolare per Brunate. Sempre intrattenendoci su argomenti i più disparati. Sulla cima, una breve sosta per sorseggiare qualcosa, senza perdere di vista il lago. In serata ci siamo riportati a Milano la splendida visione dall’alto di “Quell’altro ramo” del lago di Como. Questo, a fine anni cinquanta, il rapporto tra il maestro Emilio Scanavino e due suoi allievi.

 

2)  Le geometrie che compaiono nella maggior parte delle opere non sono di facile interpretazione, almeno per i non addetti ai lavori; come si potrebbe provare a spiegare la pittura e la genialità di Emilio Scanavino?

 

In ogni opera di Scanavino tutto può riuscire facile e istintivo, o del tutto indecifrabile. Esattamente come in una sinfonia di Luciano Berio. O ci si entra dentro, e tutto si illumina come per incanto, oppure ci si estranea in stratosfere di concetti – incompatibili d’ogni godimento estetico - col solo rischio di una emicrania. Un adeguato “abbandono”, a volte, sarebbe già sufficiente. Gran parte della genialità di Scanavino nasce dalla ricerca di “contrasto” tra una presenza razionale (geometrica) e una entità irrazionale del profondo (gestuale). Uno scontro tanto più violento, nell’energia primigenia che gli è propria, da ricreare il pathos e il mistero propri di ogni opera d’arte.


3)  Come è nata l'idea di comporre l'opera "Omaggio all'America Latina" e quale significato riveste oggi?

 

Non ho mai avuto occasione di vederla, e dalle immagini reperite posso soltanto indovinarne lo spunto concettuale. Loculi e sterpaglie di scheletri. Resto sempre perplesso davanti a qualsiasi opera con premesse “concettuali” travalicanti una autonoma consistenza estetica. L’Inno alla gioia della Nona di Beethoven, cantato in tedesco, è perfettamente comprensibile e godibile da qualunque Iñupiaq appassionato di musica classica.

 

4)  Rispetto agli anni di forte dinamismo in cui dipingeva Scanavino, l'arte in Italia sembra oggi rivestire un ruolo di secondo piano: esistono rimedi, secondo lei, che si potrebbero attuare per invertire questa tendenza?

 

In un Paese in irreversibile sgretolamento culturale e politico come il nostro? Nessun rimedio che non nasca da una ritrovata, condivisa urgenza estetica e etica. A tutti i livelli. Lorenzo il Magnifico era ottimo poeta, Elisabetta I° eccellente suonatrice di virginale, Federico II di Prussia musicista e protettore di artisti e filosofi. Va da sé che i loro regni brillavano per illuminati “beni culturali” e mecenatismo. I nostri governanti non distinguono una sinfonia di Haydn dallo stridore di una saracinesca, un verso di Ariosto dal verso di un pescivendolo. E neppure gli frega niente.

Un analfabetismo culturale così raccapricciante che non può che generare desertificazione in tempi brevi, tanto dell’arte quanto dei cervelli. Già oggi non c’é evento d’arte che non rischi di precipitare in ciò che Luciano Berio definiva “Paracadutismo culturale”. Gli stranieri non sono certo risucchiati in Italia dal 150° della sua Unità – delirio da imputare alle nostalgie febbricitanti di un Presidente rimasto calcificato dal lancio della stampella di Enrico Toti agli Austriaci (nonostante quelli ne avessero senz’altro di migliori) - ma dalla grande arte italiana di ogni tempo. Come per l'Uomo di Similaun, un Presidente, è il caso di dirlo: Lux perpetua luceat ei.

Trovo calzante l’apprezzamento nei confronti dell’Italia scritto oltre un secolo fa (!) dall’occhio impietoso e profetico di “uno” straniero: “La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli.” Marcel Proust.

 

Christian Flammia

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